Mine, un film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, Mediaset Italia 2, ore 21:29, giovedì 19 dicembre 2019.
Ripropongo la recensione scritta all’uscita del film in sala.
Mine, un film di Fabio & Fabio (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro). Con Armie Hammer, Tom Cullen, Annabelle Wallis, Clint Dyer.
Un film di genere, un war movie girato in inglese prodotto da un americano e rivolto al mercato internazionale, con una star come Armie Hammer. Lo hanno realizzato due trentenni di San Donato Milanese, ed è un evento da celebrare. Un soldato nel deserto impegnato in una misteriosa guerra mette il piede su una mina. Ce la farà a salvarsi? Confezione di livello internazionale, ma a non funzionare perfettamente è il tentativo di ibridare il war movie con lo psycho-thriller e il fantastico. Resta la favola bella di Fabio & Fabio alla conquista del mondo. Voto 5 +
Questo film è la favola del momento, la bella storia che critici di carta, web, radio-tv amano raccontare e raccontarsi in questo pezzo di stagione cinematografica. Perché è il sogno lungamente accarezzato e finalmente realizzato di un film di autori italiani girato in inglese, con dichiarate ambizioni internazionali, vendibile e comprensibile in tutto il mondo. Un esemplare di cinema di genere che vuole competere sul mercato globale con i più sofisticati e furbi prodotti americani, europei, asiatici. Oltretutto finanziato con capitali Usa – il produttore è Peter Safran, lo stesso di Buried e The Conjuring, uno degli horror di maggiore incasso degli ultimi anni – cui si è poi aggiunta una partecipazione italiana per coprire i costi di post-produzione. C’è da essere lieti fino all’esultanza per questo Mine, come no. Che poi, diciamolo, era anche ora, visto che gli spagnoli, tanto per stare in un paese e a un cinema geograficamente e culturalmente vicini, da una vita scorrazzano internazionalmente con film di genere ad alto livello. Il molto celebrato Buried era diretto da Rodrigo Cortes, per non parlare dei lavori del catalano Jaume Balaguero, i vari[Rec]e Fragile, o di quelli di Juan Antonio Bayona (The Impossible). Lo stesso dicasi della Francia e dei suoi talenti giovani chiamati da Hollywood, come Alexandre Aja. Eravamo gli ultimi, i reietti, salvo qualche rara eccezione che faccio fatica a ricordare (mi viene in mente l’horror Imago mortis), e adesso semplicemente cerchiamo di recuperare, perché la competizione globale ha per terreno privilegiato la fabbricazione dei sogni, l’audiovisivo con prodotti di genere come questo.
A celarsi dietro al brand Fabio & Fabio – è la firma registica che vediamo nei titoli di testa – sono due trentenni milanesi, anzi di San Donato Milanese, attivi da più di dieci anni ormai nei vari rami dell’industria del cinema, della pubblicità, dei video musicali e aree affini. Fabio Guaglione e Fabio Resinaro hanno incominciato a trafficare con la mdp durante il liceo, poi si son dati subito da fare con la pratica più che con la teoria, in una perfetta storia milanese di fattività e volitività imprenditoriale, e di successo, mettendo su una piccola factory impegnata su vari fronti produttivi. La svolta vera c’è stata con un corto di fantascienza girato nel 2008 a Torino (ah, la solerte e avveduta Piemonte Film Commission), Afterville, su un’enigmatica visita aliena che per certi versi anticipa quanto s’è appena visto a Venezia in Arrival di Denis Villeneuve. Afterville farà vincere a Fabio & Fabio il premio di miglior corto europeo al fondamentale festival del cinema fantastico di Sitges, in Catalogna. Da lì i primi contatti con gli americani, da cui nasce un megaprogetto per una major che mai si concretizzerà, finché i due Fabii per uscire dall’impasse arrivano a pensare, scrivere, proporre questo Mine, trovando in Safran l’uomo che ci crede e ci mette i soldi (“In fondo”, hanno detto in conf. stampa a Mlano, “Mine è anche la rielaborazione dello stallo in cui ci siamo trovati con quel progetto incagliato”). Ci ha creduto anche Armie Hammer, l’attore biondo e marmoreo di The Social Network, J. Edgar, The Lone Ranger, U.N.C.L.E., accettando di entrare nel progetto non solo come interprete del ruolo protagonista, ma anche da co-produttore esecutivo (“Noi in effetti all’inizio avevamo pensato ad altri attori”: sempre i due Fabii in conf. stampa). Il risultato eccolo qua, in questi giorni giorni sugli schermi d’Italia – il resto del mondo seguirà prossimamente -, distribuito in 200 copie, un numero di rispetto per un film di nomi non così collaudati. Il primo weekend è andato bene, più di 500mila euro incassati e la più alta media per sala, adesso stiamo a vedere la tenuta. Intanto siti web, carta e altri mezzi hanno fiutato il caso, parlando e riparlando della bella storia dei due liceali di San Donato arrivati se non proprio a Hollywood certo nei suoi dintorni (però mi chiedo: dov’erano tutti quando c’è stata a Milano la proiezione stampa, non proprio rigurgitante di folla?). Bene, un caldo applauso ai due ragazzi che ce l’hanno fatta con i propri talenti, anche segno di una ritrovata milanesità attiva e startuppista che non si dà giustamente limiti alla conquista del mondo. E però, il film? Com’è il film? A una prima parte compatta e robusta subentra una seconda molto discutibile che rischia di rovinare il buono mostrato fino a quel momento. Per dirla tutta: Mine non mi ha granché convinto, non dico si tratti di occasione sprecata, ma certo non ha la forza e perfezione, l’inesorabilità da macchina da guerra del miglior cinema di genere. Non è così originale l’idea di partenza, quello di un soldato incagliato su una mina e a rischio di saltare per aria al minimo movimento, con successiva suspense. Sono almeno tre i film degli ultimi tempi con lo stesso dispositivo narrativo, l’inglese Kill Two Bravo visto al Torino Film Festival 2015, il danese Land of Mine e il francese Passo falso. Siamo quasi a un sottogenere codificato. Va detto però che il film di Fabio & Fabio, all’inizio molto somigliante sia a Kill Two Bravo sia a Passo falso (c’è sempre un soldato incastrato su un ordigno durante una guerra contro un nemico jihadista), poi prende tutt’altra direzione, con derive imprevedibili in un cinema di fantasmi e alterazioni psichiche. Mentre Mike, tale il nome del soldato americano bloccato, cerca di liberarsi da quella dannata cosa su cui ha appoggiato un piede, si innesca in lui un tourbillon di immagini mentali, di ricordi e di deliri, in un viaggio psichico dentro di sé, nel proprio passato, con il padre cattivo, la madre vittima di papà, i contrasti con la fidanzata e quant’altro. Che è un’astuzia da parte dei due Fabii per poter reggere l’ora e mezza di narrazione senza annoiare, e senza restare intrappolati nel perimetro ristrettissimo, fisico ma anche cinematografico e narrativo, di un uomo fermo sopra una mina. Solo che il film con queste digressioni e derive perde se stesso e il proprio baricentro, e anche il proprio senso, diventando un ibrido di incerta classificazione. Non più un semplice war movie incrociato al thriller, non più un classico suspenser così come lo intendeva Hitchcock, forse uno psycho-thriller con incursioni nel fantastico, e con qualche ambizione autoriale di troppo di fuoruscire dal genere. Incastro su una mina come metafora di un ingorgo psichico e esistenziale, di un blocco senza (apparente) via d’uscita. Peccato che questo sia, oltre che confusamente orchestrato (si fatica parecchio a seguire l’andirivieni tra allucinazioni e realtà sensibile, e i passaggi non sono così ben oliati), è anche di scarso interesse. Scusate, ancora l’edipo irrisolto con papà? Ancora il trauma infantile per le botte e gli abusi di papà su mamma? Ancora le solite baruffe e incomprensioni con la fidanzata? I cammini psichici del private Mike Stevens sono alquanto scontati e non riescono ad appassionarci. Quello che era all’inizio il generoso tentativo di uscire dal puro war movie o survival movie per incrociarlo con incubi e visioni, si rivela un vicolo cieco, un ulteriore intrappolamento. Non bastasse, Mine oscilla e sbanda tra adesione al reale e astrazione. Siamo in un deserto innominato, con due soldati americani (a un certo punto se ricordo bene li si definisce marines) dislocati a controllare i movimenti di misteriosi nemici islamisti-jihadisti. Poi quel piede che calpesta disgraziatamente la mina. Man mano che le allucinazioni del protagonista si intensificano anche il deserto sembra uscire da se stesso, dematerializzarsi trasformandosi in una landa desolata in cui si stagliano figure sempre più disincarnate e simboliche. L’uomo sulla mina diventa l’Uomo teso al superamento del limite e impegnato in una prova iniziatica, o in un’ordalia. Solo che a non funzionare clamorosaemnte sono gli elementi di realtà residuali, che nonostanto tutto continuano a resistere e a pesare in questo procedimento di astrazione. Com’è possibile che due marines si ritrovino in un deserto che è chiaramente nord africano (vedi la visita del berbero), quando nell’ultimo secolo non si è mai avuto un intervento militare Usa in quell’area? Certo, gli americani son stati in Iraq e in Afghanistan, ma il primo è in Medio Oriente, che non c’entra niente con il Nord Africa (lì non ci sono i berberi!), il secondo sta in Centro Asia. Qualcosa non torna. Dite che quei soldati sono solo un simbolo? Va bene, ma allora perché definirli come marines, come americani? La mia impressione è di un certo pressapochismo e di una certa disinvoltura nello stabilire la cornice etno-geografica della storia, e a risentirne è la credibilità del film. Per non parlare dell’inattendibile figura del berbero sbucato dalle dune, non si capisce quanto reale e quanto proiezione allucinata della mente di Mike, oltretutto orrendamente parlante in un bingo-bonghese inudibile. Mine è impeccabilmente girato, la confezione iperprofessionale. I limiti stanno nella sceneggiatura e soprattutto nell’approssimazione del quadro di riferimento, e sono smagliature che in un prodotto internazionale non possono esserci.
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