Venezia 80. EVIL DOES NOT EXIST (Il male non esiste) di Ryusuke Hamaguchi – recensione

Aku Wa Sinzai Shinai (Evil Does Not Exist – Il male non esiste) di Ryusuke Hamaguchi. Con Hitoshi Omika, Ryo Nishikawa, Ryuji Kosaka, Ayaka Shibutani, Hazuki Kikuchi, Hiroyuki Miura. Voto 7 e mezzo

Non è l’Hamaguchi maggiore di Drive My Car, questo Il male non esiste è, volutamente, un piccolo film, nato come cinema del reale, come testimonianza della vita di una villaggio di campagna e collina non molto distante da Tokyo e della comunità che lo abita, Mizubiki. E poi svoltato, non è dato sapere quanto inaspettatamente, in un film di finzione che però conserva uno sguardo osservativo, documentaristico. Fino dall’esemplare incipit che è quasi un manifesto teorico, un lungo, lento piano sequenza attraverso un bosco, con la mdp puntata in alto verso rami e cielo. Capiremo che quella sequenza intendeva comunicare l’armonia tra umano e naturale di cui il film ci mostrerà la progressiva disgregazione. Dall’equilibrio al caos, è questo il tragitto che Hamaguchi percorre. Tenendo la propria attenzione su Takumi, un giovane vedovo che con la piccola figlia Hana vive al limitare dei boschi, in una vita immersa in quell’assoluto naturale che lui non vuole prevaricare e di cui cerca di essere un ospite rispettoso. È cinema mostrarci, come fa Hamaguchi, per molti e molti minuti Takumi che spacca la legna con un rigore da cerimoniale (dopotutto siamo in Giappone) e che con lo stesso rigore riempie contenitori di acqua sorgiva? Sì, lo è (con buona pace di quelli “però qua non succede niente” che non si capisce perché vadano ai festival e non se ne stiano a casa loro a guardarsi Netflix). Quello di Hamaguchi è cinema puro dall’anima zen, per il nitore, per l’aerea leggerezza, e cinema in sottrazione, del vuoto e della purificazione. Quasi impossibile parlare qui di trame, tutt’al più ci sono microincontri e collisioni tra personaggi. L’amonia viene minacciata quando da Tokyo arrivano due tizi, un signore e una signora, a sottoporre all’assemblea di villaggio un progetto di glamping, orrendo neologismo nato dalla fusione tra glamour e camping, ovvero un camping fighetto per gente cool ansiosa di depurarsi dalle tossine della metropoli e vivere una (presunta) immersione nella natura. È Takumi il più intransigente difensore dell’integrità del villaggio, il più fiero avversario del glamoing, così convincente da affascinare i due venuti da Tokyo e destabilizzare la loro fiducia nel progetto. Ma il vulnus c’è ormai stato e l’ordine non tornerà e sarà un fatto inaspettato a sanzionarne l’impossibilità. Un finale enigmatico e spiazzante lascia gli spettatori con molte domande e poche risposte. Eppure un film così monacale e rigoroso ha strappato uno degli applausi più convinti. Assistendo all’assemblea di villaggio dove anche l’avversione al glamping viene espressa con la massima urbanità e nei modi controllatissimi da”Giappone impero dei segni”, si pensa a cosa succederebbe in analoga situazione italiana: volerebbero urla e stracci, si arriverebbe alle mani. Il Giappone è lontano.

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