Happy Hour di Ryusuke Hamaguchi. Con Mihara Maiko, Tanaka Sachie, Kawamura Rira, Kikughi Hazuki. Concorso internazionale.
Il film-moloch di questo festival (317 minuti) arriva dal Giappone e racconta di quattro amiche descritte nelle loro felicità e infelicità. Una di loro svanirà durante una vacanza (e sembra L’avventura di Antonioni): dopo niente sarà più come prima, per tutte. Un film minuzioso che prende quota e si addensa nel suo lento dipanarsi, discendente degli home-drama dell’immenso Ozu. Voto tra il 6 e il 7
In ogni festival c’è un film-moloch di lunga, lunghissima, debilitante durata. Veri stress test che mettono alla prova anche i più resilienti dei cinefili. Il moloch di questo Locarno 2015 arriva dal Giappone e ha un titolo gentile, Happy Hour. Però sono cinque ore e diciassette minuti che non molti, almeno tra i giornalisti, hanno avuto la voglia di affrontare. Anche perché Happy Hour non presentava i segni dell’alta autorialità, niente bianco e nero, niente storia di umiliati e oppressi in qualche sfigatissima plaga del mondo, solo quattro amiche medioborghesi nell’affluente Giappone di oggi seguite e pedinate dalla macchina da presa nel loro essere unite e nel loro dividersi e confliggere, nei loro bovarismi (son quasi tutte insoddisfatte dei loro matrimoni o storie e anelano a qualcos’altro, non sempre ben precisato). Insomma, le cinque o sette ore il critico medio e unico le affronta e le sopporta tutt’al più se arrivano da un Lav Diaz o da un Bela Tarr, autori con certificazione di garanzia per cui vale la pena impegnare masochisticamente un pomeriggio di full immersion, ma se a chiederti il sacrificio è l’abbastanza sconosciuto signor Hamaguchi Ryusuke ecco il fugone preventivo e anticipato, e pure durante lo screening. Ma, a cose fatte anzi viste, cosa si può dire? era proprio il caso di mettercele, le cinque ore e passa made in Japan, in programma, oltretutto in concorso? Massì, anche se devo dire che Happy Hour non è un evento da storia del cinema. Parte come una soap opera, che ti viene voglia di mollare subito, poi però, nella lunga durata, cresce, si complessifica e stratifica, acquista in densità, tant’è che si finisce con il legarsi (sarà la sindrome di Stoccolma dello spettatore verso l’autore-carnefice che lo ha preso in ostaggio?) alle quattro amiche, tutte tra i trenta e i quaranta, chi accoppiata con matrimonio, chi senza matrimonio, chi single di ritorno dopo un divorzio, chi in via di divorzio. All’inizio per loro sembra tutto funzionare benissimo, lavoro e affetti, man mano che si procede però l’armonia si distrugge ed emergone le crepe, anzi le voragini. Una di loro sparirà dopo una vacanza comune in una città termale, e quando farà riavere notizie niente sarà più come prima, né per lei né per le altre del gruppo. Amori e disamori, uomini che entrano nelle vite ed escono. Con molta capacità di osservazione e penetrazione da parte del regista, che si aggiunge ai non molti cineasti maschi davvero in grado di descrivere le donne (Bergman, Antonioni, Kieslowski, Pietrangeli, Mizoguchi e qualcun altro). Personaggi collaterali assai azzeccati, come l’artista-guru femminiere compulsivo e soprattutto il marito invasato d’amore, anche se la moglie non lo ama, anche se si sono sanguinosamente combattuti in tribunale per il divorzio. Stile rigoroso, spesso fatto di inquadrature frontali. Blocchi narrativi lunghissimi e minuziosi, quasi in tempo reale (e la dismisura del film deriva da questo). Qualche analogia con gli home drama di Kore-eda visti a Cannes 2013 e 2015. Ma il padre nobile di questo cinema giapponese attento alle minime increspature dell’anima e alle interferenze tra varie traiettorie esistenziali resta l’immenso Ozu. Happy Hour è produzione ultraindipendente voluta dal suo regista, che ha raccolto parte dei finanziamenti attraverso il crowdfunding. Anche per questo non è il caso di maltrattarlo.
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