Cannes 2021. Recensione: MEMORIA, un film di Apichatpong Weerasethakul. Premio della giuria (ex-aequo)

Memoria, un film di Apichatpong Weerasethakul. Con Tilda Swinton, Jeanne Balibar, Juan Pablo Urrego, Elkin Diaz. Concorso. Vincitore del premio della giuria ex-aequo con Ha’Berech (Ahed’s Knee) di Nadav Lapid.
Apichatpong Weerasethakul è tornato al festival che gli diede nel 2010 la Palma per Zio Boonmee (quello sì uno shock salutare, mica lo scandaluccio modaiolo di quest’anno di Titane). Memoria è totalmente suo, con quelle sospensioni e indistinzioni tra passato e presente, sonno e veglia, qui e altrove. Per la prima volta AW gira in inglese e fuori dalla sua Thailandia – siamo in Colombia – e bisogna dire che il cambio di latitudine qualcosa toglie a questo pur bellissimo film. Voto 7+
Finalmente. Finalmente il gran thailandese e maestro del cinema asiatico, regista-sciamano evocatore di presenze e misteriose assenze, decostrutrore di ogni confine tra vita e oltre vita, passato e presente, qui e altrove, sogno e veglia, insomma l’Apichatpong Weerasethakul che scosse Cannes vincendo nel 2010 la Palma con Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (scandalo vero, altro che la provocazioncina a modaliola di Titane, che ancora ricordo i dispacci festivalieri soprattutto italiani di costernazione e stupore e indignazione per quella vittoria) è tornato a casa, cioè al festival del cinema più importante che c’è. Ed è un egregio ritorno, all’altezza delle aspettative, una conferma della sua statura d’autore unico, dopo la partecipazione nel 2015 nella sezione seconda Un certain regard con il meraviglioso Cemetery of Splendour, forse il suo capolavoro, anche meglio di Zio Boonmee, meglio di Tropical Malady. E ci si (ri)chiede perché non lo si fosse messo nel concorso maggiore e perché la giuria di quell’Un certain regard – presiedeva Isabella Rossellini – non gli diede nemmeno un premiucolo. Niente. Zero. Il vuoto. Sicché la ricollocazione quest’anno di Memoria nella Compétitiom suona come un’imbarazzata retromarcia e un sacrosanto risarcimento di quella che a me allora sembrò una carognata (come se gli si volesse far pagare la Palma precedente), un ritorno conclusosi con l’assegnazione a Memoria del Premio della giuria, ex-aequo con un un altro gran film, Ha’Berech dell’israeliano Nadav Lapid (insomma qui la giuria ci ha visto bene).
A spiazzarci è che per la prima volta l’adorato Apichatpong (me lo ricordo presidente di giuria assai parco di parole, avvolto in una nube di impenetrabilità zen, a un Locarno di un parecchio tempo fa: 2012, stagione Olivier Père) gira in inglese, gira con un cast international capitanato dalla volitiva e onnipresente a Cannes 2021 Tilda Swinton (anche coproduttrice di Memoria), soprattutto abbandona la Thailandia e le sue foreste pluviali oscure e dense di fantasmatiche presenze, scrigno di ogni mistero, per fiondarsi in un’altra foresta, quella altoamazzonica della Colombia, oltre che negli ambienti urbani della capitale Bogotà. Un envoironment assai herzoghiano, ma da lui declinato in un cinema di rarefazione e lentezza, di folgorazioni visuali, di azioni minime e di contemplazioni assai lontano da quello del titanico tedesco. Molto di sé stesso e delle proprie visioni se lo porta dietro e riesce benissimo a riadattarlo alla nuova lattudine, qualcosa però perde, qualcosa in questo pur attento trasloco svanisce. Per il resto è puro, riconoscibilissimo Apichatpong Weerasethakul, per come il thailandese stravolge non solo i tempi del racconto dilatandoli (secondo, immagino, certe pratiche meditative), ma interviene sulla stessa nostra percezione del tempo – non diversamente da un altro maestro del cinema del Far East come Tsai Ming-liang.
Attraverso il suo personaggio guida, una expat inglese in Colombia (possiede un vivaio a Medellin, la sorella vive anche lei in Colombia ed è ricoverato in ospedale nella capitale per una malattia misteriosa quanto seria), ci porta in un territorio, in un anfratto spaziotemporale dove gli usuali bordi e perimetri e limiti vengono dissolti, dove l’oggi si sovrappone allo ieri in un flusso indistinto e la memoria è insieme il mezzo per ricongiungere i pezzi dispersi nelle varie stagioni della vita e farli rivivere in un eterno presente, e una macchina produttrice di inganni, falsi ricordi, depistaggi, miraggi mentali.
Più che mai, e con un titolo assai esplicitò che è anche una chiave per penetrare all’interno del film e dei suoi labirinti, rimette in gioco le nostre consolidate certezze sul reale o ciò che si manifesta al nostro sguardo come tale. Un’immagine o, come in questo caso, un suono possono spalancare abissi, introdurci in altre dimensioni e universi, far vacillare le nostra arrogante sicurezza sulla leggibilità del mondo. Niente di nuovo, si dirà, è Apichatpong Weerasethakul. Difatti. Anche se la lontananza dalla sua Thailandia (ma perché l’ha fatto?) sottrae qualcosa all’incantamento usuale, alla fluidità e naturalezza dei film precedenti, come se stavolta lo sciamano si fosse trasformato in un medium certamente prodigioso e di consumata abilità, ma che non riesce ad allontanare un qualche sospetto non dico di cialtronaggine, ma di assai professionale astuzia, di consumato mestiere.
La storia, sempre che di una storia si possa parlare in AW, vede l’expat Jessica, coltivatrice (anche) di orchidee a Medellin – ma non era la centrale di ferocissimi cartelli narcos? è stata riconvertita in leggiadro giardino? in oasi ecosostenibile? – ora in visita a Bogotà alla sorella Agnès ricoverata in ospedale, rimanere sconvolta da un suono cupo, improvviso, un rimbombo come di un’esplosione. Non riuscendo a capirne l’origine, si rivoge al dipartimento dell’università di Bogotà di ricerche sul suono, dove un giovane studioso cerca di ricostruire e decifrare attraverso tecnologie digitali il misterioso boato. Ma la fonte resta ignota, mentre il fenomeno si ripeterà, anche se a sentirlo sarà sempre e solo Jessica, in una di quelle distorsioni percettive e soggettive assai tipiche del cinema di Weerasethakul. Allucinazioni auditive o Jessica è piuttosto l’antenna capace di captare segnali che agli altri sfuggono? Un incipit che curiosamente è quello di un giallo, con tanto di ricorso positivista alla scienza e alla tecnica quali risolutrici del mistero come in certo primo Dario Argento (gli studi di criminologia sul Dna di Il gatto a nove code, la macchina per leggere le immagini sulla retina di Quattro mosche di velluto grigio) o del Brian De Palma di Blow-out (anche lì un suono da decodificare catturato da sofisticate, almeno allora, tecnologie). Il che aggiunge curiosamente un retrogusto da cinema di genere a un cinema come quello del gran thailandese che ne è abissalmente distante. Anche se, ovvio, in Apichatpong ogni ingenua fede nei poteri della scienza svanisce ben presto. Impossibile procedere oltre nel plot per non anticipare troppo, si può però dire che a essere risolutivi saranno l’incontro con un pescatore di nome Hernan (come il tecnico del suono dell’università: cos’è che li lega?) in un villaggio e il ponte medianico stabilito con un passato di cui intuiamo l’atrocità. Punto.
A festival di Cannes finito da più di due settimane, a polemiche sul festiva e la palma ormai placate, devo dire che Memoria mi sembra proprio una grande riuscita, e parecchio meglio di come mi sia sembrato nel ‘subito dopo’ (la visione). Anche questo un effetto del cinema di Weerasethakul, della sua capacità di plasmare le nostre percezioni nel corso del tempo e di metamorfosizzarsi nella nostra memoria.

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