The Duke of Burgundy, un film di Peter Strickland. Con Sidse Babett Knudsen, Chiara D’Anna. Torino 32 (concorso).Due donne chiuse in una casa ricolma di teche di farfalle. Invischiate in una relazione serva-padrona anche erotica. Film di morbosità, voyeurismi, perversioni e ambiguità molto anni Sessanta/Settanta, che l’inglese Strickland sa costruire con senso dello stile e un certo laccato voyeurismo. Peccato che la storia latiti. Ma resta un film da amare. Voto 7 meno
Era, tra tutti i film del concorso, quello da me più atteso. Purtroppo non mi ha mica così convinto, mi ha insieme deluso e molto affascinato, e affascinato soprattutto nella prima parte, di gran lunga la migliore. Del resto avevo provato analoga ambivalenza per il precedente film del britannico Strickland, Berberian Sound Studio, visto tre anni fa a Locarno, un thriller ispirato agli italian gialli argentiani e sotto-argentiani anni Settanta che ha poi fatto il giro del mondo rastrellando parecchi premi e stabilendosi come un culto. The Duke of Burgundy ne riprende le atmosfere morbose molto Sixties/Seventies, un senso di lascivia e peccato che oggi si è perso, le psicologie contorte e i giochi di manipolazione tra i personaggi. Purtroppo di Berberian Sound Studio ripropone puntualmente anche i limiti, l’insufficiente sceneggiatura, la carenza di una scrittura adeguata, la narrazione che non riesce mai a farsi vera storia, che eternamente torna su se se stessa, labirinticamente, circolarmente, senza nessuno sviluppo avvertibile. Peccato. Se solo Strickland si affidasse a uno sceneggiatore con le palle ci servirebbe dei capi d’opera, altroché. Ma i suoi film restano lo stesso esempi di un cinema ammaliante oggi desueto, inattuale, che lui è tra i pochissimi a tentare, autoretrodatato a 40-50 anni fa con i suoi movimenti lenti e sinuosi, i legami perversi tra i vari personaggi, le ambiguità. Un cinema che è anche teatro e spettacolo della crudeltà.
Siamo in una parte imprecisata d’Europa, certamente continentale e non insulare, probabilmente mittel- o est-. Cynthia è una studiosa di lepidotteri che analizza e colleziona nella sua casa isolata, immersa nel verde, trasformata in un santuario di teche di larve e farfalle minuziosamente classificate e infilzate. Sua assistente, in quel lavoro ma anche nella gestione della casa, è la più giovane Evelyn. Ben presto, in quello spazio chiuso e occupato solo dalle due donne, emergono quali siano i loro ruoli. Cynthia è, letteralmente, la padrona, anche sessuale, Evelyn la schiava. Cynthia ordina, e più gli ordini sono assurdi ed umilianti, e più Evelyn è felice di soggiacervi e di poterli eseguire. Finché la partita finisce, inevitabilmente, a letto, tra carezze e baci vetero-lesbo che richiamano certi B-movies italiani (e non solo) anni Sessanta e Settanta e pochissimo il lesbo-chic e la gender-culture di film come La vie d’Adèle. Tutto un calze nere sfilate lentamente, e bocche purpuree, e corsetti a strizzare seni che sembran gemere ed esplodere in tanta costrizione. Camera ad accarezzare carni e curve, a esplorare anfratti e nudità. Esercizio di alto voyeurismo operato su corpi femminili avvinghiati, di sporcaccioneria assai stylish, in cui Strickland mostra di cavarsela benissimo inserendosi nel solco dei lesbo-thriller e degli eros-film di tanto nostro cinema fa, dai lounge thriller di Umberto Lenzi a Una lucertola con la pelle di donna di Lucio Fulci con l’immensa Florinda Bolkan. Il regista nel pressbook dice di essersi ispirato a Tinto Brass e a Walerian Borocwycz, e in effetti del regista polacco si notano parecchi elementi, soprattutto sono evidenti gli echi dell’episodio di Racconti immorali con Paloma Picasso signora del vizio e del sangue circondata da ancelle-oggetto. Dopo tre quarti d’ora che promettono moltissimo, il film comincia però a languire, ad avvitarsi, a lasciarsi invadere dall’inerzia, dall’entropia, fissandosi sulla iterazione ossessiva e anche tediosa del rituale serva-padrona, con la schiava sempre più sfacciata nel chiedere umiliazioni e torture e dunque, paradossalmente, diventata conduttrice del gioco. Ma Strickland non sa dar corso narrativamente neppure a questo interessante paradosso e rovesciamento e non sviluppa, come molti indizi lascerebbero pensare, neppure una traccia da thriller. Sicché il film si arena in una specie di radiografia di un amore stanco e routinier e abbastanza qualsiasi. Che occasione sprecata. Però, tra tanti film inodori e insapori, almeno questo The Duke of Burgundy (nome di una farfalla rara e bella) mostra un’impronta forte e originale. Se solo Strickland si facesse scrivere delle storie vere, mannaggia. Comunque occhio, potrebbe diventare un culto. (E continuando col gioco delle ascendenze e delle citazioni: qua dentro c’è parecchio Genet, c’è il Losey-Pinter di Il servo, c’è lo Chabrol di Les biches e Il buio nella mente, c’è Fedora di Billy Wilder, c’è perfino il Bergman di Persona).
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